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Il gran dibattito dell’estate 1998

Era l’estate del 1998, quella in cui Marco Pantani vinse il Giro e il Tour; stranamente Internet esisteva già.
Non solo, esistevano già delle pagine interattive proposte da mezzi di comunicazione, piuttosto rigide, che avevano bisogno della mediazione di un esperto, ma che comunque permettevano di fare alcune di quelle cose che oggi sono la quotidianità per tutti.

Il sito del Corriere della Sera, sotto le indicazioni di Gianni Riotta e con il supporto tecnico di Paolo Virtuani, Marco Zamperini e Paola Taveggia, dall’anno precedente teneva una di queste pagine interattive, che a riguardarle erano più vicine alla pagina dei lettori di Montanelli sulla carta stampata che ai social media di oggi. Si chiamava P&p, ed aveva un successo incredibile, penso arrivassero centinaia di lettere al giorno. Mi ero inserito piuttosto bene nel gruppo ed ero uno di quelli che si vedeva pubblicato abbastanza spesso. Tra l’altro, molte delle persone che scrivevano le ho incontrate dal vivo, certe erano davvero straordinarie, con alcune era nato un rapporto diretto che dura ancora; su tutto quello che è seguito si potrebbero raccontare delle storie, un’altra volta. Poco più tardi, sarei entrato anch’io stabilmente a fare l’imbrattacarte della rete.

La cosa interessante è che nel giugno ’98 uno di noi aveva scritto un commento su come mai credeva in Dio. Qualche giorno dopo naturalmente arrivò qualcuno a dire il contrario, e nel giro di un mesetto i messaggi pubblicati su questo tema erano forse più di un centinaio. Uno di questi, del 30 giugno, era il mio, gratificato di un apprezzamento di Gianni.

Qualche tempo dopo, un settimanale che usciva all’epoca e che si chiamava “Diario della settimana”, diretto da Enrico Deaglio, aveva dedicato a questo curioso fenomeno la copertina e nelle pagine interne ne aveva ricopiati 24, sia pure con robusti e comprensibili
tagli editoriali (già allora, Internet era logorroica). Il mio messaggio era tra quelli.

Sono passati 25 anni da quell’estate. Nelle immagini ci sono la copertina e la pagina che mi riguarda, in questa pagina che ho retrodatato al 30 giugno 98 riporto il testo completo così come era uscito sulla pagina Web, tranne un paio di sistematine editoriali.

Il punto soggettivamente più importante, per me, è quello indicato nell’ultima riga, che riguarda qualcosa di bello che stava succedendo quell’estate.

EF: a divergent camera

35mmc is one of the best (analog) photography community.
One of the last entries is this one,
Canon EF Camera review – The F-1’s Little Sibling – By Thomas
and of course I suggest to read it.

I have mixed opinions about a quite unconventional camera, at least if you think at the “classical” ecosystem of the Japanese majors when the philosophy (can we say the canon?) of system cameras was established, let’s say in the Seventies.
So I added a comment that I’m reproducing here with just a couple of corrections.


EF is such a strange thing. I have had my own for a relatively short time, having started with an AT1 and then focused for a lifetime mainly on FTb and F1’s.

It was not easy to understand, until I had my “Arsenal offside trap” moment and realized that I already knew all of it.
The body is practically the same of an FTb, with the large time selector switch anticipating that of AE1/AT1.
The way you’re using the meter, shutter priority or off, is the same of Canonet QL17 (less easy on a top-level SLR than on a pocketable, fixed optic RF).
So you simply have to forget that it’s neither AT1 nor FTb and use it like a QL17, remembering that the primal weighed-area metering system is a bit rude.

It’s an interesting experiment of three different ideas, the panzer mechanic of F series, the ergonomy of forthcoming, late ’70s automatic cameras, with the anomaly of the Copal vertical shutter that probably had something more to say (cfr. Contax 139 and so on) but also anticipated the hybrid shutter of F1n.


Or, if you prefer, a fascinating dead end branch of an evolutionary tree.

Not the easiest camera to use, but the feeling of a unique living memory of a transition era (for the pedantic philologist) – or simply of a damn beautiful black brick.

Fotocalendario dell’anno passato

A volte in rete si fa, a volte no, io sono pigro e anche quando lo faccio poi non lo riordino. Ma per quest’anno sì.

Su Twitter ho usato i primi dodici giorni dell’anno per ricordare i dodici mesi del 2022 con una foto significativa. Per alcuni mesi ho fatto fatica a trovarne perchè avevo scattato veramente poco, e magari solo foto d’occasione contestualizzate (manifestazioni, conferenze). Per altri mesi avevo l’imbarazzo della scelta. Alla fine dell’anno il conteggio totale dei rullini, o delle poche lastre piane, è stato abbastanza cospicuo, ma solo grazie ad alcuni momenti particolari in cui ho potuto lasciarmi andare.

Ciò detto, eccoci qua.

Gennaio: Prealpi comasche.
Kiyv 4, Jupiter 12 – 35/2.8, HP5 EI 1600

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Febbraio: Milano
Kiyv 4, Jupiter 9 – 85/2, long expired Kodak Gold 200

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Marzo: Ferrara
Canon FTb, 70-210/4FD, FP4 EI 200

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Aprile: Lomazzo (CO)
Pentacon Six, Biometar 80/2.8, Rollei Retro 80, IR filter.
Bonus: backing paper marks

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Maggio: Scandicci (FI)
Canon FTb, 35/3.5FL, Orwo UN54 EI 160

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Giugno: Como
Kodak Retina II, Xenon 50/2, Orwo UN54 EI 160

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Luglio: Como
Contax 139, Yashica 24/2.8, Orwo DN21 EI10

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Agosto: Elbigenalp (A)
Ercona 1, Tessar 105/3.5, Fomapan 200, yellow filter

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Settembre: Milano
Canon FTb, 80-200/4FD-L, HP5 EI 800

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Ottobre: Milano (OctobErwitt?)
Werra 5, Flektogon 35/2.8, Paul&Reinhold EI 1000

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Novembre: Como
Kiyv 4, Jupiter 12 – 35/2.8, HP5 EI 1600

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Dicembre: Como
Canon FTb, 24/2FD, FP4 EI 500

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Extra bonus: shooting mountains on FP4 with Canon FTb
(taken by Sasha: Canon F1n, 50/1.4FD, looong expired Velvia 50)

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Mentre raccoglievo le immagini mi sono accorto che, quanto a pellicola, diverse sono fatte su materiale che ho usato raramente, se non addirittura per la prima volta. Per le fotocamere, invece, tolta la FTb che è parte di me, c’è una netta preponderanza di Est Europa.
E non solo Jena: penso che una volta mi sarei vergognato ad andare in giro con una macchina addirittura “Made in CCCP”.
Ma quest’anno ho iniziato davvero ad amare anche dal punto di vista tecnico, e ad essere orgoglioso di portare a spasso con un nastrino🇺🇦, le versioni Arsenal delle vecchie Contax: che preferisco traslitterare in Kiyv.
Slava Ukraïni!

tredici tweet per ricominciare a scrivere libri

Non ho mai fatto quei thread chilometrici e preventivati che alcuni fanno su Twitter. Stasera mi sono accorto che ne stavo facendo uno, e così, per quel che vale, me lo ricopio qui per pensarci su.

Del tutto banale pensare che persino in queste pagine mie  in qualche  dozzina di mesi ho aggiunto ben poco di concluso (contr:  sconclusionato).


Ho riaperto dopo chissà quanto il mio “Analisi chimica per l’arte e il restauro”, che ho scritto nel ’96. Ne ho letto una mezza pagina iniziale insieme ai ragazzi cui inizio a spiegare l’analisi, non per esibire qualcosa (cosa?) ma per vedere il confronto tra il linguaggio

che a me sembrava abbastanza semplice per un pubblico di adulti un quarto di secolo fa, e le loro capacità di comprensione verbale, prima di entrare in quelle concettuali. Un esercizio che faccio spesso con cose scritte da me per rendermi conto del livello di separazione

tra due modi di esprimersi. Quello che a me sembra, o sembrava anni fa, sufficientemente semplice e possibilmente stimolante, non disadorno, per persone con una accettabile cultura di base ma in campi diversi dal mio, e quello con cui mi devo confrontare con il gruppo

di persone cui devo rivolgermi hic et nunc, e che spesso sono diverse non anno per anno ma anche in due classi parallele. Il che è quasi indispensabile per spiegare in modo efficace. Non faccio la semplice retorica dell'”ogni anno sono peggio”, perchè non è vero,

se il livello medio generale ormai è inconcepibilmente basso rispetto a quel che la scuola pubblica dovrebbe garantire e pretendere, questa media è fatta da valori statisticamente dispersi ma che comprendono anche soggetti più che in grado di stare al gioco che la scuola

dovrebbe proporre e giocare insieme a loro. La riflessione più seria è personale, sulla mia lingua, sulla mia capacità di insegnante (comunicatore? divulgatore?) e su come si è evoluta o involuta da quando scrivevo libri. Nei 23 anni da quando ho chiuso l’ultimo ho scritto

in rete, su giornali o chissà dove abbastanza parole per riempire due dozzine di libri, ma sento troppo la difficoltà di scrivere in modo ordinato e concluso, non frammentario, di mettere una parola fine dove so che in realtà non finisce niente, e qualcosa domattina

sarà già superato (visto che perlopiù scrivo di cose tecnico-scientifiche).
Ho nella testa, e già aperti sui pc, almeno tre libri, da anni. Nella testa sono quasi completi, si tratta solo di trovare l’introvabile voglia di dire “si comincia” e di puntare un obiettivo

da raggiungere per dire “basta, finito”. Una volta mi ponevo un limite di tempo, diciamo un paio di mesi, e ce la facevo anche lavorando tutto il giorno in azienda. Ma scrivevo per lettori che in parte conoscevo e di cui sapevo le capacità di comprensione, appunto. È stare

nella scuola, che da un lato mi riempe troppo di dubbi, dall’altro mi fa pensare che passeranno settimane o mesi tra quando ho pensato delle parole e quando verranno lette da qualcuno, che non è più chi ho in mente hic et nunc. Però mi rendo conto che ormai non è più

il tempo di aspettare, perchè passa il mio tempo individuale, ma passa anche il tempo del mondo intorno, e se in questi anni frenetici e convulsi, aperti a un futuro forse migliore, ci dovessero essere quei famosi 25, ho (- il dovere? il bisogno? -) di scrivere.

Se solo trovassi l’ordine mentale, la disciplina per rimettermi a farlo, e avere alla fine quel piacere di chiuderlo. Per poi metterlo magari in rete gratuitamente, come avevo fatto con quello del ’98, tanto i diritti ti pagano poco più che il fastidio di confrontarti

con burocrazie e procedure dell’editore.
Se avessi il coraggio di dire che oso chiudere in una struttura di 150-200 pagine le idee che mi girano nella testa espandendosi come vortici frattali, perchè quel che ne posso dire sensatamente è in fondo così scarso e limitato.

10/9/2021, tarda serata

I’m taking the time for a number of things

The lockdown icon

During the weeks that we are forced to spend at home, after the first shockwave of Covid-19 in Lombardy,  I’m taking very few photos.

The first day of partial lockdown I made a short trip in the neighbourhood, with the Canon Demi S in my pocket and mostly shooting around without aiming, just to see what happened.
An FP4 @ 400.
And then also a white-label Adox HR50.

Things like these, I mean.

    

     

The last pocketful of rolls that I have been shooting with my slightly ravenous style were those for the March edition of  #FP4Party , and then I stopped.

In the very few moments out of my door, until now I’m carrying no camera at all, and even with my phone I’m rarely aiming at something.

Don’t know why, indeed.

Maybe I could answer that my old cameras were not made to be sanitized with alcohol after every exit, that’s all.  Well, I have to pretend that the full-plastic Minox 35 is out of service, but never mind.

      

However, as I have a squad of 9×12 black bricks, sometimes I’m preparing some indoor scene, or even better I’m looking at something out of order, needing housekeeping. Things fallen on the floor, other things that you have to clean, or maybe that have been long waiting for mending.

And then, mostly I don’t shoot. An average of one sheet every two days.

      

Until now I’ve used Fomapan 100 inside:

  • Ica Sirene,  Angulon 90/6.8
  • Fotokor,  Ortagoz 135/4.5
  • Avus,  Skopar 135/4.5
  • “Frau 22”,  Press Xenar 127/4.5 and Angulon 65/6.8 (one day I’m going to speak about this elusive Bavarian lady).

Last week, I also put a Retropan 320 roll inside the Pentacon Six. Not yet finished.

Here, some results of these minimalistic exercises. I would have preferred being around Anselizing, I’m just trying to Westonize a little bit.

      

Of course, results are nothing special. But we have time to waste.

 

 

FP4Party, 3.2020

#FP4Party is a strange photo contest on Twitter. It started some years ago (I remember a cryptic tweet exchange at the end of Aug. 2016) and is held at least twice a year.

The rules are: in a certain month, 1st week is to shoot [FP4, of course], 2nd to develop, 3rd to publish and 4th to choose the winners.

This time, the 1st week has also been the 1st (limited) quarantine week for the virus in Italy, followed from the full quarantine that helds us at home. So, at least, I had the chance to shoot more rolls in different locations (all around Como, Italy):

Canon FTb, various lenses (a previous 135 to finish)
PentaconSix, Flektogon 50 all with deep yellow filter
Canon DemiS, with or without red filter
Steinheil 9×12, Anastigmat Actinar 135/4.5 with Rada 6×9 back
Werra 5, Flektogon 35 /Tessar 50 / Cardinar 100, with or without filters (2 rolls)

All 200 ISO; ID11 1+1, but 1st Werra  FX39 1+9.

Who knows, we’ll be on the road again, some day… in the meanwhile, I’m publishing my pictures here. All files are downsized, of course.
Sincerely, @CanonF1

Monday:

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 ...many empty spaces?
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(Square cropped)

Tuesday:

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Keep on moving!
ImmagineWe're late

Wednesday (three, this time)

ImmagineEmpty spaces - 1
ImmagineEmpty spaces - 2
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Empty spaces - 3

Thursday:

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24/7, always
ImmagineMonte Rosa

Friday

ImmagineWhere my freedom ends
ImmagineWe'll meet again                               (...wow, Vera Lynn is 103 today!)

Saturday

ImmagineWhite&white                                      (every time I cross this warehouse, I wonder if the plumber knew Erwitt) 
ImmaginePresent mood

Sunday

ImmagineTwo coots
ImmagineWetlands

Now that this great edition of #FP4Party is closed, just another one. The first one that I shot during my first day’s walk.

You can choose the title you like.Immagine
Mano alzata con medio e anulare separati Fotogrammi filmFaccina con maschera medica

and #StayHome

Un blow up su una generazione

Tra i regali di Natale ne ho trovato uno che mi ha sorpreso e un po’ spiazzato, il recente volume della Contrasto “Io sono il fotografo” che racconta in tutti i dettagli la genesi di Blow Up di Antonioni, partendo dal racconto di Cortazar cui era molto vagamente ispirato. E che, al di là della trama esile del film, è un autentico trattato sul ruolo sociale della fotografia nel momento in cui nasceva il mondo visivo in cui siamo ancora immersi, prima che gli scatti spolpati e parossistici dei cellulari costruissero un nuovo modo di confrontarsi con la realtà attraverso le immagini, che forse capiremo meglio fra un po’ di tempo.

L’ho letto di un fiato, ritornando su diversi particolari, pur non avendo a portata di mano il film con cui andarmi a confrontare per una lettura più analitica. Davvero un volume notevole – complimenti a chi lo ha concepito e compilato – che mi pare spieghi meglio di tanti altri cosa sia stata la fotografia, nel bene e nel male, nel formare la percezione della realtà di noi nati e cresciuti lungo un ben preciso arco di decenni.
Nel momento in cui la macchina fotografica smetteva di essere elitaria e professionale ma costruiva una parte della realtà comune un po’ per tutti, assai più di quanto lo fosse ancora nei trent’anni in cui diventava qualcosa di “democratico” e non professionale – quelli centrati a cavallo della seconda guerra mondiale.
Materiali, tecniche e sensibilità che davano ad ognuno la possibilità di essere fotografo delle vacanze o cronista dei propri tempi, anche al di fuori del più impegnato ambito del reportage da teatri drammatici. Per dire, la fotografia che su Epoca riempiva le pagine tutt’intorno a quelle che pubblicavano i servizi più consapevoli e “deliberati”.  Quella che si sarebbe evoluta (o involuta?) verso le Polaroid e le Instamatic.
Dove restavano un po’ irrisolte le diverse funzioni dell’immagine fotografica, anche perché lo stesso professionista poteva muoversi su terreni sensibilmente diversi, da quello di documentazione e di denuncia a quello più rassicurante, commerciale, glamour, in cui impugnare una fotocamera ti dava un’aura invidiabile anche per l’appeal del mondo a cui potevi sognare di affacciarti (è tutt’altro che un caso che la Valentina di Crepax sia una fotografa).

Anche Thomas, il personaggio di David Hemmings, è un giovane rampante della fotografia di moda nella Londra degli anni ruggenti, ma dedica dello spazio al reportage sociale. Antonioni si appoggia fortemente nientemeno che su Don McCullin: è proprio lui che materialmente scatta le riprese un po’ sgranate intorno a cui è costruito il film e sue le foto suburbane in esposizione, anche se resta in sospeso  – ed oggi suona così datato – il discorso moraleggiante, tenendo presente quanto sono diversi i mondi cui cerca di riferirsi.
A dirla tutta, Antonioni come narratore di storie non mi entusiasma, non mi prende il milieu ideologico di cui era uno dei fari, che poi si sarebbe chiamato radical chic e che già era irriso dal primissimo Guccini.
Ma come fotografo, ragazzi! Un occhio favoloso, la capacità di scegliere collaboratori di prim’ordine, inquadrature e tagli sempre esattamente calcolati. Si vedeva che si era formato negli anni del massimo splendore di quel bianco e nero che ancora resisteva all’attacco del colore.
Nel volume c’è anche un’intervista commentata a Brian Duffy, Terence Donovan e David Bailey, del ’64, che servì ad Antonioni come ispirazione per un minuzioso studio di quali fossero i pensieri, le abitudini e i vizi dei protagonisti della Swinging London. I tre giovani leoni che avrebbero costruito l’immagine della moda ma anche della musica inglese. Circa coetanei di McCullin, destinato a sentieri terribili; poco più giovani di Newton, Penn ed Avedon, che invidiavano e volevano superare; poco più vecchi di Leibovitz o Mapplethorpe che avrebbero inventato linguaggi ulteriormente innovativi.

La cosa che però mi ha colpito è che a regalarmi questo libro sia stata proprio Anna.

Lei è infatti della  generazione di quei fotografi – ha esattamente l’età di Lotti ed Hockney, tanto per dire. Leggendolo non potevo non pensare che anche lei, parallelamente, è cresciuta in quell’epoca in cui ogni giovane di un contesto urbano occidentale iniziava a trovar normale l’uso della fotografia come strumento espressivo per documentare la propria vita, e che pure lei l’ha sempre praticata un po’ di sponda, senza tirarsela con pose da artista.

Anna ha avuto un marito appassionato di fotografia, nitido e preciso anche se un po’ calligrafico, mentre lei dietro l’obiettivo è sempre stata un po’ più sghemba e fantasiosa; se vi si fosse dedicata con regolarità e metodo avrebbe avuto uno sguardo molto interessante. Certo, per una ragazza italiana tra i ’50 e i ’60, che la fotografia potesse essere più che un hobby era piuttosto improbabile.
Restava una cosa domestica, che riempiva prima gli album rilegati, con immagini a volte distaccate, a volte preziose per documentare un’epoca passata; poi, i raccoglitori più semplici stipati di foto delle vacanze.
Eppure, anche da quelle sue immagini saltano fuori delle inquadrature notevoli, che (prescindendo del tutto dalle sovrastrutture critiche alla base di questo libro) mostrano consapevolezza dello scatto.
E mi spiace che da quando si è scassata la sua Nikon compatta adesso lei fotografi soprattutto col cellulare.
Il quale oltretutto ha un angolo di visuale troppo largo rispetto a quelli cui era abituata, un taglio che semmai si presta di più alle immagini da globe-trotter che raccoglie sua figlia.
La quale fa parte di quella generazione degli anni ’60 che dai genitori ha imparato a guardare attraverso un obiettivo.

Qualcuno di loro ha finito per restarne intossicato, come me.

Perché, ovviamente, Anna è mia mamma.

(rivisto il 22.12.19)

Zeiss Ikonta B 522/24 – per qualche scatto in più

Questo articolo, che traduco qui in mirror dall’originale inglese, è il mio primo contributo ospitato da 35mmc, un ben noto blog dedicato principalmente alla fotografia analogica, nella serie “5 frames with…”. Esce con un po’ di ritardo per disguidi vacanzieri.


La prima macchina fotografica che ho frequentato da vicino era la Zeiss Ikon Contina Ic di papà. Cromature molto cool fine anni ’50 , rigida senza soffietto, un grande mirino, completamente manuale. Ancora oggi funziona molto bene: ma era scomoda e fuori moda quando lei ed io eravamo ormai maggiorenni.

La mia prima vera macchina fotografica è stata la Canon AT1, e così ho cominciato ad usare praticamente solo il sistema FD.

In anni più recenti sono stato colpito da una intensa G.A.S. e mi son messo a cercare soprattutto oggetti Zeiss, incluso un colpo di fulmine per le Ercona, le repliche DDR migliorate della Ikonta 521/2, gigantesche ma tascabili.

Stavo però sempre cercando qualcosa di veramente compatto, più “meccanico” della Minox 35 (e più economico della Rollei 35), ed oggi una fotocamera pieghevole è qualcosa da mostrare in giro, non più da nascondere in cantina.
Così, dopo più di cinquant’anni e cinquanta macchine, ho incontrato la sorella maggiore della Contina, la Ikonta B 522/24, ultima e più piccola della sua casata: il cerchio si è chiuso ed è un nuovo amore.

Ikonta B 522/24, aka Ikonta 35 mm

Nelle immagini si possono vedere le dimensioni, a confronto con altre cosette piccine – o quella cicciona di zia Ercona, che ha lo stesso ingombro della 524/2 (a telemetro) di Oliver Clarke.

Perchè me gusta questa cucciola?
Primo, una bellezza pura. A mio modesto parere, una delle macchine più eleganti che si siano mai viste.
Un piacere anche solo guardarla, o portarla a spasso come un gioiello d’epoca.

Poi, è piccola, compatta, affidabile, con un luminoso  Opton Tessar 45/2.8 (anche se forse non il miglior Tessar che abbia usato).
Con un una cinghia al polso, comoda per la foto di strada e di sorpresa, anche senza inquadrare.

D’altra parte, inquadrare attraverso un mirino minuscolo può essere un problema, con gli occhiali (a volte i multifocali sono un problema anche con le reflex!). Facile esagerare la parallasse e tagliar via dei dettagli.

E, tra gli altri particolari curiosi (indovina dov’è l’attacco del cavalletto da 1/4?), il più strano è forse che è una “24×37” mm: cioè, guadagnando un filo sui panorami, hai dei problemi con le buste d’archivio e le montature dello scanner.

Ma si sa, la Zeiss Ikon non amava le cose semplici…

E qui qualche esempio di come se la cava:

  • Un contrasto croccante sui panorami e sulle architetture
    … ma occhio al mini-mirino!

  • Silenziosa e discreta per passare inosservato

  • Nonostante la presa insolita, permette scatti rapidi

  • Chiara e luminosa nelle scene scure

  • Facile da tenere nella borsa da ufficio, per averla quando serve

  • 1/500s da un veicolo in corsa – niente male.

Questa traduzione è un mirror con minimi adattamenti da https://www.35mmc.com

Foto su tessuto (#Setificio150 e Pistoletto)

Da qualche giorno, nel corridoio del Setificio di Como ci sono esposte alcune mie foto,non una mostra in senso stretto ma una mostriciattola occasionale in cui ci sono due elementi di interesse:

  • invitare gli studenti a insistere con le ibridazioni fotografiche in fase di ripresa
  • allargare la tavolozza delle ibridazioni alle potenzialità di stampa su tessuto, con qualità (quasi) fotografica.

Qui vediamo un paio di inquadrature:

sopra: il restyling in occasione della festa di fine anno – sotto, la versione studiata con gli studenti che però era troppo “ballerina”

l’uomo degli spilli

 

Il testo delle didascalie è questo:

1868 – 2018
Municipio di Como, 5 Aprile

Il 150° di apertura del Setificio viene celebrato nel salone d’onore di Palazzo Cernezzi.
Le foto della cerimonia che presentiamo qui proseguono una ricerca sulla ibridazione nella fotografia, mescolando tecniche,  apparecchi, stili visivi e tecniche di stampa, analogico e digitale, che al Setificio stiamo svolgendo da alcuni anni.

Foto ed elaborazione grafica: Sergio Palazzi

TECNICHE DI RIPRESA:
Rolleicord Vb, adattatore 16 pose, ob. Schneider Xenar 75 mm/ 3.5. Flash elettronico. Pellicola Bergger Pancro 400, sviluppata in D76.
Inquadratura, illuminazione e resa tonale cercano di riprendere l’estetica delle foto di cerimonia degli anni ’60, come se le avessimo scattate in occasione del centenario nel 1968.
Le fotocamere meccaniche lasciano spesso nell’immagine un proprio
marchio di fabbrica: la cornice con i “cornetti”, volutamente  riportata, è il segno tipico di una TLR Rollei con adattatore 4.5×6.
La pellicola, di ultima generazione, consente di controllare una scala tonale molto ricca e morbida, compensando la durezza della illuminazione frontale.
Qualche idea lanciata a chi studia fotografia, per cercare percorsi visivi che si stacchino dall’omologazione digitale e dagli “effetti” standard, già preconfezionati nei sw commerciali.

ELABORAZIONE E STAMPA:
Il negativo è stato scandito con un Epson V700 e Silverfast 8.8, alla risoluzione di 2400 dpi / 8 bit.
Per il ritocco, il bilanciamento e l’impaginazione sono stati usati solo SW open source: Irfanview e Scribus.
La stampa è stata realizzata per trasferimento termico a  sublimazione su raso di PET da 208 g/m², presso il laboratorio Pizzala del Setificio.
La carta transfer è stata stampata sulla Mimaki JV 150/160  dell’Istituto, con inchiostri in quadricromia base.
Una ulteriore ibridazione del percorso ricollega quindi queste immagini a ciò che il corso di Sistema Moda sta sviluppando per la sostenibilità e la tracciabilità della produzione tessile: la successiva evoluzione sarà l’uso di PET riciclato 100% che, abbinato alla stampa a sublimazione, consente l’impatto ambientale di gran lunga minore tra tutti i processi per ottenere tessuti stampati, anche per immagini di qualità prossima alla stampa fotografica.

Gear Gallery:
La Rolleicord Vb con adattatore 16p. Anche se sono ancora  reperibili i flash a lampade al magnesio usati fino agli anni ’70, si è optato per un flash elettronico compatto.
La Canonet 17QL, ob. 40 mm/1.7, usata per ulteriori riprese non inserite in questa mostra, oltre che per le foto in luce ambiente scattate alla conferenza di M. Pistoletto del 5 aprile, esposte nel seguito in corridoio.
Un selfie della Pentacon Six TTL con Flektogon 50 mm/4 CZJ e fisheye Zodiak 30 mm/3.5, usata per le prime riprese della mostra
“Afrodite allo Specchio”, che introduce nelle nostre visioni ulteriori ibridazioni.

Le foto possono essere viste in orario di apertura della scuola (fino al 15.6 l’orario di servizio si prolunga a sera inoltrata, poi in orario diurno); al momento non è indicata una scadenza.

Si ringraziano il Preside, i tecnici (Marcello Casati per primo), le classi 4 Serale e 3M1M dei corsi Sistema Moda del Setificio… perchè la chimica è di moda, sempre!

 

7 days, 7 black and white photos of your life

Sono troppo antisociale per tutto, figuriamoci partecipare a catene su web.

Ma stavolta mi aveva provocato un giovane e grande comunicatore scientifico (@SellaTheChemist) per cui non mi potevo tirare indietro. 

Lo schema era “7 days, 7 black and white photos of your life. No humans, no explanations. Challenge someone new every day.”.

L’ho interpretato così, e ovviamente niente spiegazioni nemmeno sulle motivazioni un po’ criptiche della scelta (però lascio aperta la casella dei commenti).
Non cito i sette che ho citato io, un po’ di pràivasi, no?

Day 1

Day 2

Day 3

Day 4

Day 5

Day 6

Day 7