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Virus di notte n.1

Una notte insonne.

Bulgakov
Buzzati
Borges
Bergman
quante B
Benedetto, la radice del nostro mondo
Baskerville e i pochi libri che salvava
alla fine ci manca un piano B.

L’uomo è mortale, ma questo è ancora il meno.
Il guaio è che può morire all’improvviso, è qui il punto!
E in generale non può dire che cosa farà la sera.

I sette messaggeri

Il miracolo segreto

Max von Sydow che ha finito la partita

Ho seminato duemila semi,
generato duemila figli,
versato duemila rivoli,
iniziato duemila storie
_ forse un germoglio durerà?

– il tempo non gli sarebbe bastato
a chieder perdono per ogni peccato – 
Ma adesso la notte è finita,
il protomedico può riposare,
un altro giro di giostra.
Look at me, Harry.
Poco prima delle sette, alla fine, mi sono alzato,
ho fatto la doccia, allacciato la camicia di cotone
ho scritto qualche frase su Twitter,
le ho copiate su Kemia

adesso faccio il caffè.
@CanonF1

Zeiss Ikonta B 522/24 – per qualche scatto in più

Questo articolo, che traduco qui in mirror dall’originale inglese, è il mio primo contributo ospitato da 35mmc, un ben noto blog dedicato principalmente alla fotografia analogica, nella serie “5 frames with…”. Esce con un po’ di ritardo per disguidi vacanzieri.


La prima macchina fotografica che ho frequentato da vicino era la Zeiss Ikon Contina Ic di papà. Cromature molto cool fine anni ’50 , rigida senza soffietto, un grande mirino, completamente manuale. Ancora oggi funziona molto bene: ma era scomoda e fuori moda quando lei ed io eravamo ormai maggiorenni.

La mia prima vera macchina fotografica è stata la Canon AT1, e così ho cominciato ad usare praticamente solo il sistema FD.

In anni più recenti sono stato colpito da una intensa G.A.S. e mi son messo a cercare soprattutto oggetti Zeiss, incluso un colpo di fulmine per le Ercona, le repliche DDR migliorate della Ikonta 521/2, gigantesche ma tascabili.

Stavo però sempre cercando qualcosa di veramente compatto, più “meccanico” della Minox 35 (e più economico della Rollei 35), ed oggi una fotocamera pieghevole è qualcosa da mostrare in giro, non più da nascondere in cantina.
Così, dopo più di cinquant’anni e cinquanta macchine, ho incontrato la sorella maggiore della Contina, la Ikonta B 522/24, ultima e più piccola della sua casata: il cerchio si è chiuso ed è un nuovo amore.

Ikonta B 522/24, aka Ikonta 35 mm

Nelle immagini si possono vedere le dimensioni, a confronto con altre cosette piccine – o quella cicciona di zia Ercona, che ha lo stesso ingombro della 524/2 (a telemetro) di Oliver Clarke.

Perchè me gusta questa cucciola?
Primo, una bellezza pura. A mio modesto parere, una delle macchine più eleganti che si siano mai viste.
Un piacere anche solo guardarla, o portarla a spasso come un gioiello d’epoca.

Poi, è piccola, compatta, affidabile, con un luminoso  Opton Tessar 45/2.8 (anche se forse non il miglior Tessar che abbia usato).
Con un una cinghia al polso, comoda per la foto di strada e di sorpresa, anche senza inquadrare.

D’altra parte, inquadrare attraverso un mirino minuscolo può essere un problema, con gli occhiali (a volte i multifocali sono un problema anche con le reflex!). Facile esagerare la parallasse e tagliar via dei dettagli.

E, tra gli altri particolari curiosi (indovina dov’è l’attacco del cavalletto da 1/4?), il più strano è forse che è una “24×37” mm: cioè, guadagnando un filo sui panorami, hai dei problemi con le buste d’archivio e le montature dello scanner.

Ma si sa, la Zeiss Ikon non amava le cose semplici…

E qui qualche esempio di come se la cava:

  • Un contrasto croccante sui panorami e sulle architetture
    … ma occhio al mini-mirino!

  • Silenziosa e discreta per passare inosservato

  • Nonostante la presa insolita, permette scatti rapidi

  • Chiara e luminosa nelle scene scure

  • Facile da tenere nella borsa da ufficio, per averla quando serve

  • 1/500s da un veicolo in corsa – niente male.

Questa traduzione è un mirror con minimi adattamenti da https://www.35mmc.com

Foto su tessuto (#Setificio150 e Pistoletto)

Da qualche giorno, nel corridoio del Setificio di Como ci sono esposte alcune mie foto,non una mostra in senso stretto ma una mostriciattola occasionale in cui ci sono due elementi di interesse:

  • invitare gli studenti a insistere con le ibridazioni fotografiche in fase di ripresa
  • allargare la tavolozza delle ibridazioni alle potenzialità di stampa su tessuto, con qualità (quasi) fotografica.

Qui vediamo un paio di inquadrature:

sopra: il restyling in occasione della festa di fine anno – sotto, la versione studiata con gli studenti che però era troppo “ballerina”

l’uomo degli spilli

 

Il testo delle didascalie è questo:

1868 – 2018
Municipio di Como, 5 Aprile

Il 150° di apertura del Setificio viene celebrato nel salone d’onore di Palazzo Cernezzi.
Le foto della cerimonia che presentiamo qui proseguono una ricerca sulla ibridazione nella fotografia, mescolando tecniche,  apparecchi, stili visivi e tecniche di stampa, analogico e digitale, che al Setificio stiamo svolgendo da alcuni anni.

Foto ed elaborazione grafica: Sergio Palazzi

TECNICHE DI RIPRESA:
Rolleicord Vb, adattatore 16 pose, ob. Schneider Xenar 75 mm/ 3.5. Flash elettronico. Pellicola Bergger Pancro 400, sviluppata in D76.
Inquadratura, illuminazione e resa tonale cercano di riprendere l’estetica delle foto di cerimonia degli anni ’60, come se le avessimo scattate in occasione del centenario nel 1968.
Le fotocamere meccaniche lasciano spesso nell’immagine un proprio
marchio di fabbrica: la cornice con i “cornetti”, volutamente  riportata, è il segno tipico di una TLR Rollei con adattatore 4.5×6.
La pellicola, di ultima generazione, consente di controllare una scala tonale molto ricca e morbida, compensando la durezza della illuminazione frontale.
Qualche idea lanciata a chi studia fotografia, per cercare percorsi visivi che si stacchino dall’omologazione digitale e dagli “effetti” standard, già preconfezionati nei sw commerciali.

ELABORAZIONE E STAMPA:
Il negativo è stato scandito con un Epson V700 e Silverfast 8.8, alla risoluzione di 2400 dpi / 8 bit.
Per il ritocco, il bilanciamento e l’impaginazione sono stati usati solo SW open source: Irfanview e Scribus.
La stampa è stata realizzata per trasferimento termico a  sublimazione su raso di PET da 208 g/m², presso il laboratorio Pizzala del Setificio.
La carta transfer è stata stampata sulla Mimaki JV 150/160  dell’Istituto, con inchiostri in quadricromia base.
Una ulteriore ibridazione del percorso ricollega quindi queste immagini a ciò che il corso di Sistema Moda sta sviluppando per la sostenibilità e la tracciabilità della produzione tessile: la successiva evoluzione sarà l’uso di PET riciclato 100% che, abbinato alla stampa a sublimazione, consente l’impatto ambientale di gran lunga minore tra tutti i processi per ottenere tessuti stampati, anche per immagini di qualità prossima alla stampa fotografica.

Gear Gallery:
La Rolleicord Vb con adattatore 16p. Anche se sono ancora  reperibili i flash a lampade al magnesio usati fino agli anni ’70, si è optato per un flash elettronico compatto.
La Canonet 17QL, ob. 40 mm/1.7, usata per ulteriori riprese non inserite in questa mostra, oltre che per le foto in luce ambiente scattate alla conferenza di M. Pistoletto del 5 aprile, esposte nel seguito in corridoio.
Un selfie della Pentacon Six TTL con Flektogon 50 mm/4 CZJ e fisheye Zodiak 30 mm/3.5, usata per le prime riprese della mostra
“Afrodite allo Specchio”, che introduce nelle nostre visioni ulteriori ibridazioni.

Le foto possono essere viste in orario di apertura della scuola (fino al 15.6 l’orario di servizio si prolunga a sera inoltrata, poi in orario diurno); al momento non è indicata una scadenza.

Si ringraziano il Preside, i tecnici (Marcello Casati per primo), le classi 4 Serale e 3M1M dei corsi Sistema Moda del Setificio… perchè la chimica è di moda, sempre!

 

Valtellina, trent’anni

Trent’anni fa luglio era stato decisamente piovoso.

Stava iniziando a piovere molto anche in Valtellina. Nel giro di pochi giorni, un’alluvione tremenda, devastazione, morti.

Un po’ di tempo dopo ero stato lassù, con pala e stivali – che ho riportato indietro – e macchina fotografica – che uno del luogo si è tenuto per ricordo.

Ne ho scritto vent’anni fa, in una pagina che si era persa quando ho rifatto il sito e che ripubblico.

La galleria di fotografie, che era qui virtualmente da allora, probabilmente verrà riproposta a fine estate a Lomazzo, come manifestazione collaterale al 60° del locale gruppo dell’Associazione Nazionale Alpini.

 

 

 

 

(Ah: neanche in questi ulteriori dieci anni sono più tornato in Valtellina. Magari, forse…)

Flipped classroom & chimica

Nel numero di gennaio (2016) del Journal of Chemical Education si è trattato con attenzione un tema che ricorre nella letteratura pedagogica degli ultimi anni,  quello della Flipped Classroom o classe capovolta. Ovviamente lo sguardo era rivolto soprattutto all’insegnamento nei primi anni del college, data anche la differenza strutturale del sistema scolastico USA dal nostro.

Per classe capovolta, detto in parole molto sbrigative, si intende una metodica (o meglio, un insieme di tecniche e procedure) in cui la lezione viene preceduta, non seguita, dallo studio/approfondimento domestico, per poi trovare il suo sviluppo nella lezione in cui il docente tende a fare più il mediatore del confronto che non il “dispensatore di sapere”. Il tutto con una serie di varianti che tengono conto anche della fascia d’età: le elementari probabilmente richiedono una didattica differente dal triennio di un istituto tecnico o dall’università. E mi fermo ad una descrizione approssimativa perché, come capita, sono scettico di fronte a categorizzazioni troppo formali ed astratte.

Proprio al mondo universitario (primi anni di college) si rivolge l’articolo di M.D. Ryan ed S.D. Reid sulla prestigiosa rivista. Con una pratica tipicamente anglosassone, concentrata non sulle intenzioni ma sui risultati, hanno voluto vedere se la cosa funzioni: facendo un esteso confronto quantitativo tra le prestazioni di diversi gruppi di studenti che sono stati esposti a questa metodologia, o a quelle di carattere frontale più tradizionali.

Va detto che a me questo approccio lascia un certo livello di dubbio, perché si basa sull’idea che in tutte le scuole si debbano insegnare le stesse cose che vengono poi valutate con test omogenei, quando al contrario il problema delle nostre sclerotiche scuole è che sono cronicamente in ritardo proprio sull’attuazione dell’autonomia e della responsabilizzazione individuale. Le quali peraltro sono in antitesi alla logica dell’esame di stato e del valore legale del titolo di studio, ma transeat.

Comunque, lo studio sistematico ha mostrato che, quando si lavora a classi capovolte, solo per le fasce più deboli dell’utenza si è misurato un miglioramento, per quanto non eccezionale. Il che non sarebbe un male, a patto che il gioco valga la candela.

Il fatto è che io stesso uso da una vita qualche sistema di questo tipo. Lo stavo facendo anche oggi, in diverse classi. Lo faccio ancora più spesso, da quando ci sono gli strumenti di interazione web tra classe e docente. Ne ho lasciato diverse tracce nella mia bibliografia.
E non penso di inventare niente: lo trovo una versione aggiornata del “Metodo Gutenberg”, che un vero rivoluzionario come Frank L. Lambert aveva teorizzato e strutturato nella didattica chimica già prima che io nascessi… In un certo senso, è una evoluzione di forme didattiche proprie da sempre dei nostri Istituti Tecnici.

Ma non si può nascondere che ci siano dei problemi, e che comunque (neanche) con questo metodo si facciano miracoli.
Ho la sensazione che, se non ci si confronta con prove quantitative standardizzate, in cui inevitabilmente una tecnica “diversa” (che crea almeno nel primo periodo stimoli ed interesse), può segnare punti a favore delle categorie deboli,  ma si segue invece la dinamica della classe in modo più analogico e contestualizzato, le cose siano meno chiare.

Perché usare questo metodo è impegnativo più per lo studente che per l’insegnante, che pure ci si deve applicare parecchio. Richiede costanza. Se praticato come unica strategia, può facilmente mandare in sovraccarico i più motivati, e lasciare freddi e apatici proprio quelli che vorremmo cercare di recuperare. E alla fine portare molti a preferire le lezioni frontali più bieche, ritrite e nozionistiche: perché danno l’impressione di farti arrivare più facilmente e con meno sforzo a quei famosi livelli minimi – altro slogan particolarmente deleterio – grazie ai quali la sfanghi e vai avanti.
Almeno finché varrà la regola che si va a scuola non per imparare di più e meglio, per vedere gratificate – dentro e fuori la scuola – le proprie competenze, ma semplicemente per uscirne il più in fretta possibile con lo stramaledetto pezzo di carta.

Insomma, né questa né nessuna altra ricetta standardizzata, calata dall’alto ed uguale per tutti, mi sembra possa essere ipso facto il sistema vincente. A prescindere dall’ennesimo slogan d’Oltreoceano con cui lo si definisce. Per decidere come  insegnare si dovrebbe ripartire ogni volta da cosa e perchè si insegna; e dalle differenze che ci sono tra classe e classe, e tra i diversi studenti di ciascuna. E poi, volta per volta, assumersi la responsabilità di rischiare la strada che può sembrare più efficace: magari, proprio questa.

Leggo la conclusione dell’editoriale di N.J. Pienta sul  J. Chem. Ed.

Flipping the classroom sounds easy. Making it work for all of our students is the bigger challenge. Making sure we have the optimal environment for optimal student learning is our duty.

O, per alleggerire il discorso, parafraserei una canzone di moolti anni fa:

Non esistono leggi qui a scuola: basta essere quello che sei. 
Lascia aperta la porta del cuore e vedrai che una classe è già in cerca di te… 

La coscienza dello shampoo

Una storia che ho sentito nel secolo scorso.

Una mamma lavava i capelli al suo bambino. Ai tempi in cui non lo si faceva frequentemente come oggi, i formulati per l’igiene erano più rudimentali, e la pratica diceva che era meglio insistere.

Vedi – dice – lo shampoo è meglio usarlo due volte. La prima volta non fa la schiuma, la seconda volta invece sì.

Mamma – risponde – come fa lo shampoo a sapere che è la seconda volta?

Credo sia stata la prima volta che ho intuito il modo che ha la chimica di interpretare e descrivere la realtà. La prima volta i grassi da rimuovere sono molti, il tensioattivo li sta emulsionando e non ne resta una quantità libera sufficiente a formare la schiuma. La seconda volta invece il tensioattivo è in eccesso e la schiuma si forma abbondante.

Molto tempo dopo ho scoperto che è anche il sistema classico per misurare, ad esempio, la durezza di un’acqua.

Ovviamente il tensioattivo non ha una coscienza. Non sa se è la prima o la seconda volta. Ma il sistema (nel senso chimico del termine) si trova in due differenti situazioni, e da qui nasce quello che possiamo chiamare un segnale, una informazione chimica. Niente di eccezionale, è ciò che accade in qualsiasi sistema che raggiunga una situazione di equilibrio in condizioni stechiometriche differenti.  La morale è semplicemente che nell’osservare la natura bisogna avere occhi da bambino e non aver paura di fare delle domande.

 

Undici anni

Non è comune che il Venerdì Santo coincida con l’Annunciazione, il 25 marzo.

Era successo anche nel 2005, quando – lucidi e sereni fino all’ultimo – si erano spenti gli occhi di Argentina Colausich Zito, nonna di Sasha e mia nonna “elettiva”.

In novantotto anni avevano visto l’impero austroungarico,  due guerre mondiali, l’Italia della fame e delle malattie che diventava quella del benessere… oltre a cinque figli ed uno stuolo di nipoti, inclusa la prima pronipote cioè Alice.

Ciao, nonna Argentina.