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Piccola memoria del web

Si parla di memoria. Di quella umana che si perde o si nega, di quella – troppa – che tante macchine accumulano su ogni dettaglio della tua e mia esistenza. E che, come è sempre accaduto, fa emergere solo qualche frammento, il più delle volte ingannevole. In questi giorni memoria è una parola spesso abusata e vilipesa. Meditate, che questo è stato…

Anche ricordare come si è diffuso il web dalle nostre parti, e succedeve l’altroieri, sembra un cercare i dinosauri. Non sono il solo a pensare che invece sia importante spiegarlo, soprattutto ai ragazzi con cui lavoro a scuola, ma tiremm innanz.

Nel lontano 2003 – i miei studenti nascevano -Internet iniziava ad arrivare al grande pubblico, perlomeno in Italia; c’era un portale che da pochi anni, tra i primi, aveva cercato di portare le ICT  al di là di una faccenda per professionisti o  smanettoni. Le persone che contribuivano a quel forum, o social media, o chiamalo come vuoi,  si chiamavano Figli di Nessuno. Come la canzone dei reduci di guerre lontane, ma eravamo reduci di una esperienza felice e recente: la comunità cresciuta intorno al primo forum di massa in Italia, il leggendario P&p di Gianni Riotta sul Corriere, che aveva chiuso e ci aveva lasciati senza il nostro punto di ritrovo.

Il motore ed il padrone di casa era Roberto, lo Yeti. Molte persone comuni, molte assolutamente straordinarie, che è stato un privilegio incontrare anche di persona: alcuni anziani dalle incredibili esperienze, ormai quasi tutti andati, tanti che oggi sono un po’ meno giovani.

Fra le troppe memorie che sfuggono nella nebbia c’è quella della ritirata di Russia del gennaio 1943. Ce ne sarebbe invece tanto bisogno, in questi tempi in cui chiunque può obliterare il passato a suo piacere, quando i testimoni sono ormai tutti scomparsi e già erano pochi nel 2003. Proprio su FdN ne avevo scritto così.

(Nel 2006, rimasto anche senza quel punto di riferimento, ho aperto kemia.it)

Una notte di relativa quiete, sessant’anni fa

Riproduco l’articolo comparso su FdN nel 2003, con la stessa data. Ho rivisto solo la punteggiatura.


From: Sergio Palazzi
Subject: Una notte di relativa quiete, sessant’anni fa
Date: Sun, 26 Jan 2003 21:58:40 +0100

Caritutti,

la giornata della memoria di domani ci riporta a un avvenimento che ricorda il suo cinquantottesimo anniversario, nel freddo gennaio polacco. Visto che non sono sospettabile di prendere sottogamba quella mattina, vorrei invece spingere la memoria indietro di due anni ed un giorno, alla sera di sessant’anni fa giusti giusti.

In questo momento sono passate forse sei ore, da quando il sole si era coricato, in Ucraina. Togliendo anche la consolazione del suo impercettibile tepore, a decine di migliaia di uomini malridotti che avevano nella migliore delle ipotesi un rifugio di fortuna in poche isbe.

Era stata una giornata tremenda, la più dura di un mese di sofferenze, da quando era iniziata la ritirata di Russia. Il dittatore al tramonto, che non aveva ascoltato chi gli spiegava che era da idioti voler mandare un’armata di duecentomila uomini male armati dove già sessantamila si erano trovati in difficoltà pochi mesi prima, a Roma doveva accettare l’idea del ripiegamento. Ma la realtà che vedevano i suoi soldati, a qualche grado di longitudine più ad ovest, praticamente piantati in asso da quell’alleato tedesco che in altre occasioni sarebbe stato prodigo di accuse di tradimento verso gli altri, era più dura del pur freddo gennaio mediterraneo.

Da quasi un mese la marcia nella steppa coperta di neve diventava sempre più faticosa. Se mai si saliva a dieci sotto zero, era una festa. I russi stavano completando un accerchiamento che sarebbe diventato una tonnara, per le truppe italiane e per i pochi reparti tedeschi e di altri alleati che si muovevano con loro. Da diversi giorni la tenaglia diventava più stretta, cercare rifugio in un villaggio per la notte significava dover conquistare le case ad una ad una. Le truppe dell’Armata Rossa, di cui festeggeremo domani un’avanzata che ha portato un lampo di libertà, due anni prima picchiavano mazzate durissime sulla massa in ripiegamento.

Ormai solo le truppe alpine avevano ancora i mezzi per combattere, ed avevano già pagato duramente: la divisione Cuneense era stata massacrata, la Julia aveva fatto miracoli nelle battaglie dei giorni precedenti, la Tridentina aveva ancora fiato, anche se molti suoi reparti erano praticamente scomparsi.

La mattina del 26 gennaio 1943 era cominciata peggio del solito, in prossimità di un villaggio occupato dai russi. La battaglia stava iniziando, ma presto aveva preso i toni di un massacro. Non ne esiste un resoconto preciso, di quella giornata: Bedeschi, nel suo sobrio “Centomila gavette di ghiaccio”, per raccontarla smette le narrazioni individuali e per due pagine usa toni tanto epici quanto offuscati. Corradi, nel suo asciutto “La ritirata di Russia”, rinuncia addirittura a raccontare se non attraverso le parole delle relazioni militari, d’altronde lui era su un altro lato del fronte, alla fine di gennaio, e il nostro miglior cronista di guerra raccontava solo quel che aveva visto con i suoi occhi.

Non aveva quindi visto il terrapieno della ferrovia, dietro al paese, dove si erano attestate truppe ingenti, mitragliatrici, blindati, artiglieria come se piovesse. E l’unica immagine che ce ne possiamo fare, anche noi, è nel mosaico di migliaia di scene raccontate da quegli uomini istupiditi dal freddo, dalla fame, dalle ferite, dai pidocchi, che anni dopo hanno detto “c’ero anch’io”…

Alcuni di quei fotogrammi li ricordavano in molti, tra i superstiti, da quando al mattino gli ufficiali han dato l’ordine di andare avanti con l’unica arma che poteva ancora funzionare: un cieco sfondamento di massa. In molti hanno visto il generale Martinat squarciato da un proiettile, che si rialzava solo per un estremo incitamento agli alpini. O don Carlo Gnocchi che continuava a soccorrere i feriti e a benedire i morti, e non sapeva che un giorno sarebbe salito agli altari. Tutti ricordano solo che la giornata volgeva alla fine, che le continue spallate non servivano più, che ormai era la fine e retrocedevano verso il ghiaccio. Non sapevano nemmeno che in una situazione simile, però nella calda estate precedente, a Isbuscenski quei matti del Savoia Cavalleria avevano compiuto una azione assurda, caricando a cavallo i carri armati, ed avevano avuto fortuna. Se anche l’avessero saputo, non li avrebbe aiutati. Faceva freddo ed il pomeriggio avanzava. E cavalli e muli erano assiderati.

Ma di matti per fortuna ogni tanto ce n’è, e uno era il generale Reverberi. E una delle scene che hanno visto in molti è stato un blindato malridotto che, tra i disperati in fuga, si girava ancora verso il fronte, con sopra Reverberi che, allo scoperto, si era messo a gridare “Tridentina, avanti!”, ed ha continuato per un tempo interminabile, metro per metro, fino a non aver più voce. Gli alpini della Tridentina, quel che restava del Quinto, gli sono andati dietro. E si sono tirati dietro gli altri. Nessuno ha capito bene cosa succedesse, ma quando il sole è calato la ferrovia era stata superata, i russi avevano ripiegato dopo aver preso una gran botta.

Così, quella notte, nelle isbe nessuno poteva sapere che la sacca della tonnara era stata strappata, che nei giorni successivi ci sarebbero stati ancora scontri duri, ma in che quella colossale e disorganica zuffa gli uomini appiedati nella neve avevano aperto a tutti la porta verso l’Italia. Un’altra pagina di resistenza disperata, come sono purtroppo tutte le più belle panoramiche collettive della nostra storia militare, il Piave, El Alamein, Cefalonia: qualcuna andata meglio, qualcuna peggio.

Non c’è stato uno Spielberg, un Eisenstein, un Leone, per raccontare quelle scene sulla neve della steppa. Il ricordo confuso le ha fatte diventare racconto epico, come le storie che i cosacchi già raccontavano quando si era appena spenta la voce di Taras Bul’ba. Visto che per una coincidenza, molti anni dopo, sono stato alpino dell’Edolo, con il 5 sul fregio del cappello, mi pareva brutto che oggi non me ne ricordassi nemmeno io.

Questa mattina, a Brescia, o vicino a Reggio Emilia dove è sepolto Reverberi, o in tanti altri luoghi, gli ultimi reduci si sono incontrati sempre più radi. I giornali, presi dall’attualità, delle cerimonie di questi giorni non si sono nemmeno accorti.

Non so come dormiranno, questa notte, quei pochi ottantenni rimasti. Cosa penseranno ritornando a quella notte di freddo, fame e sangue, ma anche di relativa quiete, sessant’anni fa, là a Nikolajewka.

Sergio Palazzi

 

DIO (SEGUE DIBATTITO)

Riproposizione integrale, con minimi interventi editoriali, del post pubblicato su “P&p” del 30.6.98, una presentazione estesa è in questo articolo.

Cari Amedeo e Andrea, Gloria e Maurizio, Steve & c.,
il nostro capoclan doveva aver voglia di divertirsi, quando ha proposto un argomento di conversazione così banale
come “Esiste Dio?”, per il nostro salottino virtuale.

Ma vi siete sbilanciati in tanti, non posso tirarmi indietro.
Graze della provocazione, capo Gianni. Forse avevo bisogno di sfogarmi dicendo queste cose.

Si, io ci credo.
La domenica mattina scandisco per intero il Credo niceno-costantinopolitano, e sono convinto di quel che dico.
Come può farlo uno come me, tacciato di iperrazionalismo scientista, che quando vede astrologi e omeopati porta la mano al lanciafiamme? Sasha me lo chiede spesso. Lo faccio e basta.
Credo in Dio uno e trino, che un giorno spero mi farà capire cosa significa.
Credo nelle cose visibili e invisibili da Lui create.
E mi pesa meno credere nel mio angelo custode, che nel confinamento dei tre quark o nella massa del neutrino, che pure non vedo e i cui effetti mi sembrano assai meno percettibili: non di meno mi fido degli argomenti di chi sostiene che ci siano.
Credo nella resurrezione della carne, che non so come sarà ma, vi prego di fidarvi se ve lo dico, so che ci sarà. Deorum manium iura sancta sunto.
La Comunione dei Santi è un concetto letterario, ma credo di non fare del sincretismo se vi includo quelle esperienze visionarie e sciamaniche, note per intuizione diretta a tutti i popoli freschi e giovani.
Quella sotterranea immanenza che Buzzati sente fra i monti e Guareschi fra le nebbie del fiume.
Credo in Dio perché sento che c’è, e più di una volta l’ho sentito chiaramente: eppure, non somiglio a un mistico, anche se amo l’umile ipnosi dell’Om e del Rosario. Non chiedetemi di più, non lo capisco ma so che è vero, e non mi servono dimostrazioni.


E, se Dio c’è (pardon: dal momento che Dio c’e), voglio credere in Gesù Cristo, morto e risorto, perche è il solo volto rivelato di Dio che mi soddisfi.
Se su questo punto mi sbaglio sono fregato comunque, se ho ragione ho qualche speranza.
Ho avuto la fortuna di essere educato in modo cristiano ma non bigotto; ho fatto qualche incontro giusto nei momenti giusti, il mio amico don Eugenio, I’Ipotesi di Messori, l’angoscia di Quinzio, la forza che scuote le vecchie ossa di Wojtyla.
Cattolico o ortodosso?
Fa poca differenza, per cui resto cattolico, anche se hanno svilito la solennità del rito latino.
Protestante? No, grazie. Calvino e Maometto mi dannano entrambi, ma almeno in questo mondo il secondo mi concede qualche sollazzo in più.
Potrei essere ebreo, è l’unica altra strada che mi convince: ma non sono nato ebreo. Amo le volute del Talmud e anche il pietismo chassidico, per quel po’ che ne conosco, ma quando mi avvicino all’ebraismo sento che mi mancano quelle risposte che stanno nel secondo tomo di quello che Steve chiama un libriccino.
Non riuscirei a temere che forse il Messia non verrà più.

Credo perché è meno difficile del non credere?
Per avere una regola morale che poi non riesco a vivere appieno?

Penso che senza Cristo sarei il più esasperato dei nietzschiani.
Non vedo alcuna altra ragione per non fregarmene nel modo più totale, violento ed assoluto di qualunque cosa che non sia il mio piacere immediato – perchè mai avere una morale?
Se lo scopo e la fine è il Nulla, ci voglio entrare alla grande, come il sommo violatore di ogni norma.
Dolce e triste Epicuro? Austero, baltico Kant?
Etica della conoscenza, patetiche disperate tesi del vecchio Monod, dalle quali si possono trarre conseguenze diametralmente opposte alle sue?
Non prendetemi in giro, ascoltate la risata del Qohelet.

Il Dio dei filosofi lo lascio ai filosofi.
Credo nel Dio invasato d’amore di Borges (“Juan, 1, 14”), che ha bisogno di conoscere la devozione dei cani, l’amarezza del calice, l’odore di quella falegnameria.
Credo nell’amore, nell’uomo, in tutti gli uomini, nella vita. Se no, che senso avrebbe sentire Alice che si muove nella carne di Sasha?