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Wabi-Sabi, forse?

Stavo andando a spasso per Milano con un giovane amico, lui al collo una Leica M6, io la mia Canon F1 –  l’antica compagna, da cui ho scelto il nickname su Twitter.
Troviamo una persona che di macchine se ne intende molto più di me. La guarda e mi fa i complimenti “per quanto è sverniciata. Non perchè ha fatto centomila scatti, ma perchè si vede che per quarant’anni siete invecchiati insieme”.DSC_0619rr
Beh, meno di trenta, penso, e già era un po’ vissuta quando l’ho presa. Ma capisco che parla seriamente e intuisco il senso delle sue parole.
Il signore, non lo avevo detto, è giapponese.

Non so quasi nulla di cultura ed estetica giapponese, ma mi viene in mente l’idea del wabi-sabi, l’ammirazione per le cose che mostrano delle imperfezioni ed il passaggio del tempo, come credo di leggere in questo saggio di Tadao Ando.

È probabilmente quello il primo motivo che mi fa continuare a preferire le foto fatte con qualche vecchia signora – come le abbiamo chiamate coi ragazzi del Setificio, rispetto alle digitali. E, tra l’altro, aver dovuto trovare il sistema di comunicare ai sedicenni esperienze che per me sono – senza enfasi – una vita, mi ha permesso in questi mesi di capire meglio un atteggiamento che oggi quel signore ha sintetizzato in poche parole (en passant: mai smettere di imparare dai propri studenti).

Non è per qualche moda alternativa, di giovanotti che magari ora ostentano lunghe barbe fulve – come quella che avevo quando iniziavo ad usare una reflex. Che sembrano cercare fotocamere a pellicola fatte di plastica colorata, con cui fare foto percettivamente brutte, quando io invece cerco vetri e metalli consumati con cui fare foto belle.

Poco prima avevamo visto insieme l’ultimo modello di cellulare, con doppia altisonante fotocamera. Uno spettacolo. Foto perfette. E persino meno caro di quel che credevo.
Eppure non penso di comprarlo, almeno a breve, e comunque non per fare le mie foto. Negli ultimi mesi ho invece comprato molte fotocamere vecchie: tutte vecchie più  di me;  qualcuna, più dei miei genitori. Scomode da usare, un po’ ridicole da vedere, l’essenza di quell’hashtag slowphoto che uso spesso: e non soltanto perché devi attendere il tempo sospeso dello sviluppo, della scansione, della stampa.
Le quali, a fianco di evocativi nomi tedeschi e delle magagne lasciate dal tempo, hanno tra l’altro in comune un prezzo ridicolmente irrisorio, incommensurabile con le loro prestazioni.

E allora mi viene in mente qualche altro vago ricordo di cultura giapponese – ritrovo una frase dell’antico monaco Kenko Yoshida:

i tuoi beni appaiano vecchi, non troppo elaborati; devono costare poco, ma essere di grande qualità

Ne avremmo anche noi, di riferimenti culturali che vanno da quelle parti lì. Direi che cercando tra Qohelet ed Epicuro, san Benedetto e Leopardi (per dire i primi che mi vengono in mente), idee simili se ne trovano.
Non ti dicono che devi amare il brutto: tutt’altro. Proprio il contrario, direi.
Devi amare, cercare, creare la bellezza nonostante l’apparenza e l’ostentazione.

Senza dimenticare che uno scatto digitale richiede cure mostruose per sopravvivere anche solo qualche lustro, mentre la pellicola è fatta per sopravvivere decenni e magari secoli… certo, forse con qualche segno del tempo, con qualche graffio e ombreggiatura.

Stamattina avevamo visitato anche un laboratorio di restauro.
Della patina, di Ruskin e di quelle cose lì ne parliamo un’altra volta. Ora spolvero la F1.

Il mio mondo in 28 mm e la catastrofe della Valtellina.

(riedito dalla prima versione di questo sito
le immagini sono qui )

Il 17 e 18 luglio 1987 l’alluvione in Valtellina aveva raggiunto il suo acme. Nel giro di pochi giorni iniziarono a cadere altre importanti frane, dopo la prima di Tartano, che andarono a complicare ulteriormente i devastanti allagamenti, fino alla catastrofe di Sant’Antonio ed Aquilone. I soccorsi partirono in maniera abbastanza efficace con un’importante presenza di volontari.
L’Associazione Nazionale Alpini si segnalò anche in quest’occasione come una delle strutture più importanti nel gestire i soccorsi dopo una catastrofe. I volontari del gruppo di Lurate Caccivio, con aggregati alcuni alpini dei gruppi di Fino e di Lomazzo, vennero distaccati a Fusine, di fronte a Berbenno e Postalesio, quasi in fondo alla grande valle. Di qua il disastro, di là poco più di un grosso guaio.

Lì sono rimasto qualche giorno, dal 10 al 16 agosto.
Lo scopo principale era evidentemente spalare palta, spalare sassi, merda, per far sentire ai valtellinesi, che stavano facendo le stesse cose con quel che restava delle loro case, che non erano da soli. Non per completare un lavoro di recupero che avrebbe richiesto mesi o anni, ma per lasciare tante macchie di luce nel grigio, che fossero da stimolo per non mollare.

Per me, scopo accessorio, come sempre, era scattare qualche foto.
Attrezzatura ridotta al minimo: Canon FTb con 28 mm 2.8, uno zoom Komura 80-200 mm, un piccolo flash a slitta. Pochi rullini in bianco e nero. Relativamente pochi scatti – visti i miei standard anche di allora – presi nei momenti di libertà, o in qualche ora di salita in fuoristrada in val Madre e in valle di Tartano.

La FTb, che avevo comprato usata a fianco della mia prima AT1, era stata per circa cinque anni la mia terza mano per afferrare la realtà. Il mio modo di osservare il mondo, da qualche anno, era l’apertura angolare di un 28 mm. Non lo dico con enfasi, è solo una constatazione di un fatto.

L’ultima sera della nostra permanenza, in occasione del pranzo con sindaco ed autorità nel salone municipale, ho lasciato sul tavolo la FTb con montati il 28 e il flashino, per poi passare la serata all’esterno, fumando e discutendo dei casi della vita.

Uno dei commensali ha pensato di prelevare il tutto per suo ricordo: compreso il rullino già scattato, fotogrammi dedicati soprattutto al colore, alle persone, a quella anziana in nero che cercava di pulire dal fango la tomba dei suoi genitori.
Non sono capace di lanciare maledizioni, ma l’avermi privato di quel rullino, e della possibilità di documentare la processione di ringraziamento del giorno dopo – festa di San Rocco – a quel signore, di cui ho intuito l’identità, non l’ho perdonato. E non solo perché, se avessi potuto completare quel servizio, avrei avuto buone possibilità di venderlo a qualche rivista.

Nell’autunno dell’87 un circolo di fotoamatori organizzò, insieme all’Enel che aveva evidentemente vissuto l’alluvione con un’attenzione speciale, una mostra fotografica presso il salone comasco dell’azienda. Mi avevano chiesto di partecipare ed avevo esposto un certo numero di immagini, stampate all’argento e virate, come allora era normale (al solfuro e al selenio su baritata, se vogliamo essere pignoli). Non mi ricordo molto di quella mostra, dovevamo essere due autori; mi ricordo però che è stata l’ultima mostra di mie fotografie in uno spazio aperto al pubblico. Tant’è vero che quelle stampe sono ancora per la maggior parte in quelle cornici, mai più riutilizzate ed ormai macchiate dalla muffa.

Tempo dopo ho trovato d’occasione un 17 mm FD – uno dei più grandi obiettivi della storia – ed ho allargato ulteriormente il mio modo di osservare, montandolo per lo più su una F1, che mi avevano venduto come rottame e che da allora ha scattato ineccepibilmente forse trentamila volte. Non avevo più comprato un 28 mm; credo, stavolta, non per caso.

Ho continuato a scattare uno sproposito di immagini, quasi mai mostrandole in pubblico, anzi spesso limitandomi a sviluppare il negativo ma senza guardarle nemmeno io, con il caso estremo dei giorni di Berlino di cui ho raccontato in altra sede. Non so quanto abbia influito l’esperienza della Valtellina, su questa mia ritrosia che per qualcuno è quasi fobica.

Di quei pochi ma intensi giorni ricordo alcune persone, ormai in buona parte andate avanti: molti stupendi alpini, alcuni celebri secondo il mondo, altri no, che già sulla settantina avevano ritenuto necessario e naturale prender su cappello e badile e partire. Ricordo lo sguardo di una ragazza di Verona che mi è spiaciuto non rivedere; ricordo altri volti che se rivedessi non tratterei bene, pensando a quello scherzo.
Ricordo tutto sommato piuttosto poco dei valtellinesi.

Avevo capito, per la prima volta in presa assolutamente diretta, che cosa significhi una catastrofe ambientale e come l’azione dell’uomo possa moltiplicarne o meno gli effetti.
Avevo sentito nelle ossa (e nel fondoschiena), moltiplicato per mille, il panico che provai anni prima, scivolando in un torrente cementificato e venendo trasportato per decine di metri da nemmeno due dita d’acqua, prima di riuscire a ribaltarmi fuori; che è un modo concreto di capire cosa significhi “la forza che l’ha g’ha l’acqua”.

Ricordo che le case vecchie, messe in posizione più scomoda ma defilate ai lati del torrente, si erano più o meno abbondantemente allagate ma non avevano riportato danni devastanti, mentre le case e le aziende nuove, costruite in prossimità del torrente erano state frantumate, riempite, spazzate via.
Sarebbe bastato dare retta ai vecchi, che sapevano che ogni qualche decennio quella specie di pisciatoio si trasforma in un mostro, capace di trasportare massi di cento tonnellate: non è arcadismo o arcaismo, solo buon senso ed intelligenza nel progettare.
Tecnologia e statistica, se vogliamo.

In tempi recenti, discutendo di interventi per il risanamento e la manutenzione di piccoli corsi d’acqua, mi è capitato di pensare che chi ne parlava dicesse degli spropositi, sia su materie di cui qualcosa capisco (chimica, depurazione), sia su altre – come l’idraulica – di cui magari capisco un po’ meno, ma insomma non proprio nulla. Mi fanno notare che di fronte a quegli spropositi reagisco piuttosto male. Credo che la mia insofferenza derivi anche da quell’esperienza.
Non me ne frega niente se qualcuno giudica questo mio atteggiamento di oggi poco “politico”, nell’87 la mia lunga militanza politica si avvicinava già alla fine, ed il Ministro che era venuto a visitarci – poi diventato famoso per altri guai – ci muoveva al sorriso per la sua goffaggine.

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Ero tornato un po’ più spassionato e un po’ più disilluso, ma avevo capito con certezza almeno una cosa: con la barba sto molto meglio che con i baffoni da tricheco.

A settembre avevo ripreso il lavoro per la mia tesi di laurea in chimica, lasciando da parte gli aspetti ambientali che ho ripreso solo in seguito.

Non sono più tornato in Valtellina, salvo una volta di sfuggita per risalire lungo una laterale. Non ho nemmeno mai visto la grande frana di Sant’Antonio. Credo sia sostanzialmente solo un caso.

L’anno scorso in una vetrina ho visto una bella FTb con vicino un 28 mm, gemelli di quelli di allora; li ho comprati pensando che ad Alice potranno servire, se e quando vorrà capire cosa significhi fare clic.
Nel frattempo, li uso intensamente io, lasciando spesso a casa tutto il resto dell’armamentario, per forzarmi a riprendere il mio precedente modo di inquadrare – non è stato semplice ricominciare a usare il 28, che non è solo una via di mezzo tra il 17 e il 35.
Averlo ripreso mi aiuta anche a riguardare meglio le inquadrature di allora. Il tipo che le riprendeva aveva in comune con me il nome, alcune abitudini, la pipa ed il Negroni, ma inevitabilmente da alcuni punti di vista era un’altra persona, che vedeva il mondo diversamente e non solo per via del 28 mm o degli occhiale da presbite che dovrò presto cambiare.

Avevo riportato a casa 230 fotogrammi, in questo anniversario li ho scanditi e riguardati con attenzione per la prima volta da allora. Molte delle immagini che ho scelto oggi non erano quelle che avevo scelto per la mostra di allora.

Pochi mesi dopo aver ripreso a vedere il mondo in 28 mm ho aperto questo sito, in cui supero la ritrosia e l’accidia nel mostrare le mie immagini. Oggi, 18 luglio ’07 – Francesco direbbe “quasi come Dumas” – mi è venuta voglia anche di commentarle, e se mi è difficile commentare le immagini lo è anche di più commentare le emozioni, per cui non aggiungo altro.

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addenda marzo 2010. Una prima media mi segnala che hanno non solo guardato le foto, ma anche letto questo commento. Hanno notato due parolacce: eh già, ci sono. Qual è il senso? E’ che, per descrivere una cosa oscena, orrenda, straordinaria come questo scempio, o la rabbia e l’orgoglio di aver fatto una pur minima cosa per rimediarvi, non bastano le parole che si usano normalmente. Si possono, forse si devono usare proprio quelle che normalmente non si usano per le cose ordinarie. Perchè la differenza si deve vedere. Bravi, ragazzi, grazie a voi e alla vostra insegnante.

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